Chi comanda in famiglia?
Oggi c’è molta attenzione verso l’infanzia, si cerca giustamente di favorire il benessere del bambino. E così vediamo che già prima della nascita si prepara tutto per accogliere il nascituro nel migliore dei modi, prendendosi cura della sua salute già nell’utero e predisponendo l’ambiente in modo che possa avere una culla che lo protegga, con sonaglietti e figure per stimolarlo, comprando tutine che lo tengano al caldo e così via. Dopo la nascita, l’amore e il rispetto per il bambino lo si coglie negli sguardi affettuosi dei genitori e dei nonni: ogni cosa che il bimbo fa è accolto da un “ohh!” compiaciuto; ogni suo movimento è seguito con orgoglio. Tutto ciò è estremamente positivo per la crescita del bambino, per l’espressione di sé. E’ davvero un gran passo avanti per l’uomo, se pensiamo che in passato il bambino era educato in modo che costituisse “due braccia in più” per lavorare, senza quasi considerare i suoi bisogni.
Ma questa conquista può rivelarsi un’arma a doppio taglio.
Se da un lato si mira allo sviluppo delle potenzialità del bambino, dall’altro, per non limitare questo sviluppo, si è rinunciato all’autorità.
La nostra società incita ciascuno ad affermarsi e la famiglia (specchio di questa società individualista) consente, anzi spinge i bambini a esprimere la propria singolarità, fino all’estremo rifiuto di ogni norma. Ciò si tramuta poi in una tirannide del figlio sul genitore (e, fuori casa, del piccolo sull’adulto); le sue richieste, i suoi capricci, diventano eccessivi e i genitori provano a porre un limite, a dire un “no”, ma si trovano a dover cedere e subire le imposizioni del figlio, che è stato eletto a vero capofamiglia, a timoniere della barca. Il giusto bisogno del piccolo di crescere con tutte le attenzioni, viene ad assumere per l’adulto il significato di assecondare tutto ciò che il bambino vuole, perché porre dei limiti sembra voler dire ostacolare la sua individualità e assumersi la responsabilità di un ruolo di controllo, fatto di regole e fermezza educativa.
Come fare allora per evitare che il bambino si sieda sul trono del despota assoluto?
Non è il caso di tornare al passato, all’autorità e alle costrizioni imposte dal genitore, senza prendere in considerazione le esigenze del bambino. Al regime totalitario è sempre preferibile la democrazia, che si sviluppa in un rapporto affettivo e normativo che permette di dir di “no” al bambino, non per farlo soffrire ma per aiutarlo a capire che il bene viene anche dal limite e non solo dalle concessioni. E’ questo rapporto – e non l’affermazione assoluta di sé – il motore della crescita. E’ ciò che lo psichiatra infantile Daniel Marcelli (“Il bambino sovrano”, Raffaello Cortina, Milano, 2004) definisce “autorità condivisa”. Richiamare un bambino, dirgli di no, dargli un consiglio non vanno quindi intesi come imposizioni di un’autorità considerata negativamente (cioè come impedimento dello sviluppo dell’individualità del piccolo), ma di un’autorità vista come espressione del legame genitori-figli.
L’autorità intesa in questa maniera richiede di saper dare delle regole.
Come dare le regole?
Quando parliamo con i genitori di regole, subito mamme e papà snocciolano un lungo elenco di episodi in cui si è dovuto dire “no” o limitare l’azione del figlio. Già in questa fase solitamente i genitori si dicono, con uno sforzo auto-riflessivo non indifferente: “forse non era così necessario quel rimprovero”, “probabilmente abbiamo sbagliato a cedere”; oppure un genitore rivolto all’altro dice: “io non lo avrei richiamato su quel comportamento, per questo non ti ho appoggiato”.
Probabilmente una delle prime domande da porsi è quali siano le regole fondamentali per un genitore: perché dico no su questa cosa, perché do limiti su quest’altra? Le regole che do sono proprio tutte necessarie o possono essere semplicemente frutto dell’abitudine o dettate dalla necessità di sentire di avere potere sul figlio?
Dire dei no è positivo, ma a volte è un modo anche per non confrontarsi con nuove richieste e comportamenti del figlio, che differiscono dal proprio modo di pensare e che in realtà non sono dannosi per nessuno. Le regole e i limiti devono servire per facilitare la vita, per proteggere sia a livello fisico che psicologico, per imparare delle cose su se stessi e sulla realtà circostante.
Per bloccare comportamenti ritenuti inaccettabili o fastidiosi oltre alla parolina “no” è utile uno stile comunicativo che permetta di far arrivare al figlio un messaggio chiaro e non distruttivo. Il no secco e inappellabile; il no che non comprende cosa stia chiedendo il figlio possono fare sentire impotenti o indurre reazioni imprevedibili. Anche le sberle, gli strattoni che sottolineano la disapprovazione per aver violato una regola sono un falso modo per recuperare potere sul bambino e, in fondo, un segno di debolezza dell’adulto. Usare forme violente vuol dire autorizzare i figli a fare lo stesso con i coetanei, i fratelli. Lo stesso effetto potrebbero averlo altri comportamenti come: non accertarsi che il bambino abbia capito il perché del divieto, i ricatti affettivi e morali (“se fai questo, ti do quello”, “se fai così, non ti vorrò più bene”), l’uso del rigido autoritarismo (“lo fai perché l’ho detto io“; “gli adulti possono picchiare, i bambini no”). Solitamente non c’è bisogno di usare la forza e le urla per farsi rispettare.
Inoltre l’uso delle regole va modulato in base all’età del figlio. Non è facile dosare vicinanza e distanza, controllo e spazio di libertà, ma non bisogna mai scoraggiarsi o sentirsi genitori falliti.
L’impegno quotidiano del genitore è rivolto a far sì che il figlio a impari a gestirsi nei diversi contesti con capacità di autoriflessione e autoregolazione. E’ chiaro che se c’è un genitore che detiene costantemente il potere e il controllo sulle regole, difficilmente il figlio potrà sperimentarsi e assumersi la responsabilità delle proprie azioni, tanto c’è sempre qualcun altro che pone limiti! Al contrario, se c’è un genitore che lascia che sia il figlio a imporre totalmente le regole, rischierà di vedere andare il figlio alla deriva, schiacciato da una responsabilità che va oltre le sue esperienze e capacità.
Puoi approfondire leggendo M. Bombardieri, G. Cavalli, “La relazione genitori-figli”, La Scuola, Brescia, 2007.